issue #26: inspiration-hunters
Questo Scenario, a cura di Federica Sala, curatrice e design advisor, affronta il tema: design inclusivo? Benvenuti in Caleido, diario d’ispirazione che contiene molte storie: di persone creative, di tendenze, di viaggi, di oggetti. / Leggi qui l’Editor’s letter
Diario di: @lafedesss
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Quando in MM Company mi hanno invitata a dare un contributo sul tema dell’inclusività, in qualità di design advisor, sono dapprima rimasta un po’ perplessa… Sebbene il tema dell’inclusività sia infatti sempre più presente nell’ambito della moda e della società civile – basti pensare a come questo tema sia entrato anche nelle scuole (finalmente è tornato lo studio dell’educazione civica, e nelle aule si parla di condivisione, di comunità, del superamento delle diversità, dell’attenzione nei confronti degli altri e di inclusività) – credo invece che il mondo del design sia ancora molto lontano.
Non mi riferisco ad un ramo specifico del design – come quello del design del sociale o del Design for All per superare le disabilità – ma al design in senso “lato”. Il design è sempre stato inclusivo e democratico, è sempre stato aperto tutti. Diversamente dalla Settimana della Moda (legata a una serie di eventi privati, esclusivamente accessibili su invito), il Salone del Mobile e il relativo Fuori Salone sono sempre stati degli eventi di grande inclusione che hanno coinvolto tutta la città. L’inclusività, di per sé, è dunque un termine che è sempre stato associato al design e al mondo del design. Basti pensare al fatto che il design industriale è nato con una fortissima connotazione di serialità e con una grandissima attenzione al giusto prezzo: io da tanti anni sono all’interno della Commissione dell’Abitare e dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) e da quest’anno ne sono anche vice-coordinatore: uno dei criteri attraverso i quali viene sempre valutato se un prodotto è di design industriale o meno è proprio il prezzo con cui viene immesso sul mercato. Un prezzo troppo alto renderebbe immediatamente un prodotto meno inclusivo e quindi ne limiterebbe la diffusione, rendendolo un prodotto più “da galleria” o “di alto artigianato”, e quindi destinato a un mercato molto più ristretto.

Nel design industriale (ad esempio Olivetti, o la Vespa della Piaggio) tutto quello che hanno fatto le grandi aziende è stato quello di portare avanti un discorso in cui la serialità, i numeri e la democraticità dei prezzi erano dei fattori determinanti del design: non si usava il termine inclusività, ma già questa era di fatto inclusività.
Oggi invece vediamo una cosa completamente diversa: il design tende (sempre maggiormente) ad essere concepito come un bene di lusso e spesso si parla di “design come valore aggiunto” (espressione che Augusto Morello, come anche tutti quelli che hanno fatto la storia del design, detestava). Un’espressione fondamentalmente priva di significato. “Il design è design” ed è proprio all’interno del processo industriale che trova la sua ragione d’essere. Ultimamente, invece, sempre di più, il design viene assimilato a un bene di lusso e quindi viene posto sul mercato come “edizione limitata” o magari anche “non limitata” ma con dei prezzi assolutamente non competitivi, che creano un grande divario tra chi può e chi non può permetterseli. Questo fa perdere tutta la democraticità al design. Perdendo la democraticità, il design perde completamente il suo criterio di inclusività: diventa una sorta di bene aspirazionale.
Pensando alla casa, essa oggigiorno è al centro dei nostri pensieri. Attraverso i social network divulghiamo sempre più immagini della nostra casa, trasformandola dunque in una nuova estensione di noi stessi. Così facendo, essa acquisisce “un valore aspirazionale” cui tendere, da arredare con una serie di pezzi “iconici”. “Iconico” è un termine che, ahimè, viene usato molto spesso anche per prodotti “realizzati l’altro ieri”, immessi nel mercato ieri e che si ci chiede come facciano a diventare già iconici; dovrebbe essere la storia e la riconoscibilità di un pubblico molto allargato (e anche trasversale) a far sì che un pezzo diventi così famoso da diventare iconico.
La “caccia” a tali pezzi iconici ha fatto sì che il design diventasse un bene di lusso, percepito dalle persone sempre più come un “fattore frustrazionale” (utilizzando un neologismo): chi non riesce ad arrivare a contornarsi di arredi che abbiano i segni estetici “dell’estetica dominante in un determinato momento” si sente frustrato.

Dal punto di vista della strategia commerciale di tante aziende, il design sta dunque andando sempre più lontano da quello che era un mondo inclusivo, parte integrante del suo dna. Troviamo una conferma di questo anche sulle testate giornalistiche, nelle quali l’immagine delle case fotografate è sempre molto rarefatta: sembrano essere case disabitate, dove tutto è perfetto, dove tutto è cristallizzato, case in cui il tempo si è fermato. Guardando invece in quelle che erano le testate degli anni 60-70-80, o anche nelle foto dei cataloghi aziendali che venivano fatte dalle varie aziende del settore, gli scatti erano estremamente rappresentativi di una vita reale e anche di una certa rilassatezza.
In questo doppio aspetto, dove da una parte si ha l’avvicinamento sempre maggiore del design a un bene di lusso e dall’altra parte si ha un design come stilizzazione formale di tendenza alla perfezione, mi sembra che il design perda il suo connotato di “disciplina inclusiva per eccellenza”, e questo mi dispiace. Quando sento le mamme che dicono ai bambini “non ti avvicinare, non toccare, è di design!”, realizzo che dietro a questa frase c’è la morte del design per come è nato. Il senso dovrebbe essere il contrario: il design va toccato, il design deve essere utilizzato. Il design è nato inclusivo e spero che torni ad esserlo quanto più possibile: nella percezione delle persone comuni, di chi lo produce e dei designer.
