Caleido intervista Nicola Brenna, architetto, co-founder del pluripremiato studio wok e giurato di MM Award 2022. Benvenuti in Caleido, diario d’ispirazione che contiene molte storie: di persone creative, di tendenze, di viaggi, di oggetti. / Leggi qui l’Editor’s letter
Diario di: @studio_wok

1. Il manifesto di studio wok prende vita dal concetto di Habitat (che rimanda alla qualità dell’abitare, e in senso lato a come il progetto d’architettura interagisce con la vita quotidiana dell’uomo che lo abita). In che modo sta evolvendo il modo nel quale le persone interagiscono con le loro case? Quali sono i macro-trend dell’interior design contemporaneo che trovano vita nei vostri progetti?
Noi crediamo che le buone architetture siano quelle che non rispondono unicamente ad una funzione o ad un momento storico, ma che riescono ad evolversi e a rispondere a necessità diverse con piccoli aggiustamenti. Ultimamente, complice anche il periodo che ci ha costretti a vivere più a lungo in spazi chiusi, la qualità dei luoghi che abitiamo ha assunto un’importanza che prima veniva spesso sottovalutata. La casa contemporanea basata sull’open space e camere piccole è fortemente andata in crisi: le attuali stanze ridotte al minimo e i grandi soggiorni rendono molto difficile lavorare o organizzare la vita quotidiana di una famiglia. Per noi è importante pensare e progettare spazi domestici che siano flessibili e capaci di adattarsi ai diversi usi durante l’arco della giornata.


2. Uno degli aspetti che mi appassiona maggiormente dei vostri progetti, è il rapporto che hanno il contesto ambientale, “sempre evidente ma mai evidenziato” (commento io): i materiali, il paesaggio, gli elementi naturali pre-esistenti (penso alla fotografatissima magnolia), il dna di un territorio, la luce. In che modo si sviluppa questo dialogo tra pre-esistente e nuovo?
Quando si lavora su un edificio esistente, (ma è un discorso che può valere anche per nuovi edifici in confronto ad un contesto) i nuovi innesti si devono inserire in maniera chiaramente contemporanea, ma senza creare un forte contrasto con le preesistenze: il dialogo tra questi elementi deve avvenire in maniera naturale, creando una stratificazione quasi atemporale.
C’è una frase di P. Zumthor che ci ha molto ispirato e che recita: “La presenza di certe costruzioni ha per me qualcosa di misterioso. La possibilità di progettare delle costruzioni che nel corso del tempo entrano in una simbiosi così naturale con la conformazione e la storia del loro luogo, eccita la mia passione”



3. Tornando con la mente agli esordi di studio wok, e ripercorrendo a moviola tutto il percorso fatto assieme a Marcello Bondavalli e Carlo Alberto Tagliabue (co-fondatori dello studio), quali sono gli insegnamenti che meriterebbero di essere appuntati in una pagina di diario? E le convinzioni che si sono poi rivelate errate?
Avendo iniziato questo percorso da giovani, tante scelte sono state fatte in maniera istintiva, ingenua e senza avere chiara una strategia o un punto di arrivo. Quando abbiamo deciso di fare il primo lavoro insieme nessuno di noi pensava che, dopo 13 anni, saremmo arrivati a questo punto. Siamo però stati sempre mossi dall’amore per l’architettura e dalla ricerca della qualità. Il nostro approccio è molto umile, privilegiamo il nostro accrescimento personale rispetto alla monetizzazione del lavoro. Una delle scelte che si è rilevata vincente è quella di aver investito fin da subito nella comunicazione del nostro lavoro: il nome studio wok è nato nel 2009, prima ancora del primo progetto, e fin dal primo lavoro abbiamo realizzato scatti con un fotografo professionista per raccontare il nostro operato. Poi 5 anni fa è nata la fortunata collaborazione con Fiammetta Gamboni che ci ha permesso di affrontare la comunicazione, social e non, con una strategia precisa e lungimirante. Rispetto alle convinzioni errate, ce ne sono state tante, spesso accompagnate dalle delusioni. Ma fanno parte anche quelle del percorso di crescita.

4. Guardando i vostri progetti, emerge un’estetica molto chiara e consistente dello studio. Come è avvenuto il processo di formazione di questa “firma”? Anche alla luce del fatto che siete 3 anime diverse, e che collaborate con vari professionisti, in che modo riuscite concretamente a trasferire tali stilemi al team e a dunque assicurarli in ogni progetto?
In questo siamo veramente molto fortunati, visto che fin da subito abbiamo avuto una grande comunione di intenti e di vedute. Le discussioni e gli scontri non mancano (soprattutto agli inizi) ma siamo in 3 e quindi c’è sempre una maggioranza nelle decisioni e, molto importante, siamo tutti in grado di fare un passo indietro per il bene dello studio. Grande merito va anche alle collaboratrici/collaboratori che lavorano con noi. Siamo riusciti a trovare delle persone fantastiche e molto preparate con le quali condividiamo gli obiettivi dello studio e che molto spesso sono in grado di stimolarci. Consideriamo studio wok come una famiglia e crediamo in un rapporto orizzontale dove tutti partecipano alla fase creativa. Penso che sia una delle nostre forze per cercare di fare architettura di qualità.


5. Quando penso a studio wok penso alla ristrutturazione della corte agricola a Chievo (Verona). Quali sono gli elementi che hanno reso quel progetto così significativo per voi? Ci sono altri progetti, o porzioni di progetto, che affianchereste a quello per raccontare il vostro dna?
Il progetto Casa al Chievo è stato il primo progetto che non fosse solo interno e nel quale abbiamo potuto proseguire il ragionamento su dei temi a noi molto cari come l’habitat e la qualità dell’abitare e in più affrontare il tema del paesaggio e approfondire le tematiche legate al rapporto tra storia e contemporaneità. Il suo successo è dovuto anche al rapporto di fiducia che si è instaurato coi committenti; come spesso diciamo, una buona architettura va di pari passo con una buona committenza. Grazie al successo del progetto al Chievo abbiamo ricevuto altre commesse che ci hanno permesso di continuare ad indagare il rapporto tra architettura e paesaggio, tra storia e contemporaneità. Pur essendo un piccolo progetto ha rappresentato tanto per noi il progetto del ristorante Myrto a Porto Cervo perché siamo riusciti, con un progetto di interni, a rendere omaggio ad un territorio e a raccontarne l’essenza.


6. Parte rilevante dello storytelling è legato alla fotografia. Qual è il suo rapporto (sia professionale che personale) con essa?
Mi appassiona molto la fotografia, più che altro da spettatore e fruitore. Rispetto alla fotografia di architettura e di come possa raccontare i nostri progetti penso che la parte più interessante sia l’interpretazione dello spazio ad opera di un occhio esterno. Insieme ai fotografi coi quali collaboriamo c’è sempre uno scambio molto denso, nel quale noi cerchiamo di trasmettere la profondità del nostro lavoro, ma spesso la sensibilità di un occhio esterno riesce a cogliere scorci e sensazioni ai quali non avevamo pensato o magari sottovalutato.


7. Spostando l’attenzione al di fuori della sfera lavorativa, qual è un obiettivo personale che sta perseguendo? Da che step è composto il percorso?
Sarà un po’ scontato, ma tutte le mie attenzioni al di fuori della sfera lavorativa sono dedicate a mia figlia e a mia moglie. L’architettura, che prima di tutto è una passione, è una professione bellissima ma che assorbe tante energie mentali e che a volte può diventare totalizzante. Poter staccare è molto importante.



8. Di recente ho sentito affermare da Drusilla Foer (un quote che ancora non alberga nel vostro coinvolgente profilo Instagram) che la cucina e il bagno sono gli ambienti più “veri” di una casa, quelli nei quali i padroni di casa davvero non hanno segreti. È d’accordo? Qual è l’ambiente della sua casa nel quale si sente maggiormente sé stesso?
Quando progettiamo un interno cerchiamo sempre di disegnare spazi che abbiano un carattere, ma non troppo invadente, per poter lasciare spazio a chi lo abita di arricchirlo con oggetti e arredi che possano raccontare la sua storia e personalità, con una stratificazione di stili che spesso si rileva molto sorprendente. A tal proposito Vico Magistretti diceva: “Una casa deve essere semplice, qualificata dagli spazi. E deve essere generosa, cioè deve accogliere qualsiasi cosa, perché l’arredo, l’immagine della casa è un autoritratto di chi cui abita. Una persona verrà sempre raccontata dalla sua casa.”

È vero quello che dice Drusilla (clicca qui per scoprire di più). In molte case, soprattutto in contesti più borghesi o legati ad alcuni stilemi del passato, troviamo i cosiddetti “spazi di rappresentanza” dedicati ad accogliere ospiti e dove il padrone di casa può mentire più facilmente. Credo però che ci sia una tendenza ad essere meno formali e soprattutto a vivere in maniera più libera gli spazi della casa. Per esempio, a casa mia, che è molto informale e che ho avuto il piacere di progettare e personalizzare secondo le esigenze mie e della mia famiglia, posso dire di potermi sentire me stesso a mio agio in tutti gli ambienti.

9. Lei è uno dei membri della giuria di MM Award: che cosa cerca dai concorrenti?
Cerco un progetto che racconti una storia e che provi a trasmettere delle emozioni. Non è semplice valutare con profondità un interno senza visitarlo dal vivo perché l’architettura è un’esperienza fisica e sensoriale. Sarà quindi molto importante il modo in cui verrà raccontato e presentato il progetto.

10. Qual è un oggetto nella sua casa al quale non rinuncerebbe mai? Qual è il ricordo legato ad esso? Può inviarci una foto scattata da lei?
Sono molto legato a questa piccola cassapanca che è appartenuta ai miei nonni; è un regalo di mia mamma, che l’ha fatta restaurare quando sono andato a vivere insieme alla mia compagna (che è poi diventata mia moglie). Ci sono molto affezionato perché rappresenta le mie radici e perché ha accompagnato me e mia moglie nelle case che ci hanno legati.
