issue #26: inspiration-hunters
Caleido intervista Martino Gamper, designer, artista e artigiano italiano. Benvenuti in Caleido, diario d’ispirazione che contiene molte storie: di persone creative, di tendenze, di viaggi, di oggetti. / Leggi qui l’Editor’s letter
Diario di: @martinogamper

1. Studiando il suo profilo, ho notato che tutti cercano di definirla (falegname-designer / artista-designer), e alla fine si dichiarano sconfitti. Perché crede ci sia questo bisogno di farla rientrare in una categoria? Non mi cimenterò in questo tentativo: mi aiuta fornendomi una auto-definizione?
Sia voler definire, che essere definito, è una scelta. In una prima fase della mia vita ho cercato di trovare una mia definizione, ma né il design né l’arte volevano accettare la mia figura. Ero un personaggio “strano” e non mi collocavo né di qua, né di la. Poi ho capito che, anziché concentrarmi sull’essere escluso o incluso, potevo fregarmene e concentrarmi solo sul fare il mio lavoro. Io mi definisco un artigiano (arti) e come tale gioco nel mezzo tra design e arte.



2. La figura del designer è spesso accostata a quella dell’inventore. Con lei invece abbiamo capito che può essere più quella di un ri-editore, un ri-lettore (penso ad esempio al progetto “Innesto”). Qual è il suo rapporto con il nuovo?
Il mondo nel quale viviamo viaggia talmente veloce che ormai, per noi essere umani la necessità di inventarci qualcosa di nuovo ci appare come una condizione naturale. Una volta si ragionava per decenni, pensiamo ai trend degli anni Settanta, Ottanta, Novanta, oggi invece nasce una nuova moda ogni anno. E questa dinamica genera in noi un senso di doverci di innovare a tutti i costi, il che è una trappola. Noi esseri umani non siamo infatti così tanto veloci: ci sono dei pezzi che ho disegnato negli anni Novanta che ancora non ho digerito. Credo che, in questo vortice, occorra invece prendersi il tempo per tornare, per rivedere, per rileggere quello che è stato già fatto: la finestra e il panorama sono sempre gli stessi, ma ciò che cambia in noi è lo sguardo con il quale rimiriamo quello stesso paesaggio. Un nuovo sguardo cambia tutto, non serve reinventare la ruota da zero per inventare qualcosa di nuovo. Ciò che mi chiedo è: quanto bisogna cambiare per farla diventare una cosa nuova? A volte basta poco. Certo, occorre una sensibilità speciale per vedere e creare qualcosa di nuovo, serve un atteggiamento; un aspetto che troppo spesso viene sottovalutato.


3. Mentalizzandola nel suo studio mentre lavora, forse per la forte componente sperimentale raccontata dai suoi progetti, la associo ad un artista mentre si cimenta in un lavoro introspettivo e manuale. Analizzando però il suo lavoro, troviamo una forte componente seriale, tipica del design. Come descriverebbe il “suo” dualismo tra arte e design?
Entrambe queste discipline mi permettono di soddisfare dei bisogni che risiedono nella mia persona: il design è la necessità di interazione e la funzionalità; l’arte è il bisogno irrazionale di esprimere la mia personalità e identità. L’artigianato è il collante, è il “mio modo del fare”, è l’interazione tra il fare e il pensare.

4. Gira la leggenda che lei facesse a pezzi vecchi mobili di Gio Ponti per realizzare i suoi. È tutto vero? Che rapporto ha con le icone del design?
È vero, tanto che alcuni progetti (come “If Gio Only Knew”) si sono basati proprio su questo. Le grandi “icone” sono certamente dei personaggi fonte di enorme ispirazione, ma ciò che mi ha sempre contrariato è il fatto che i loro oggetti non potessero essere “toccati”. Un po’ come se l’unico modo di relazionarsi alla storia dovesse essere la conservazione museale. Viceversa, mi ha sempre incuriosito l’idea di maneggiarla, di rileggerla, di trovare a questi oggetti un nuovo posto nel mondo, anche contrapponendoli al contemporaneo. Modificare le “icone intoccabili” non significa per me distruggere l’opera di un grande maestro, ma riutilizzarla per creare qualcosa di nuovo: voglio dimostrare che vecchio e nuovo possono convivere, grazie ad uno sguardo e ad un atteggiamento innovativo. Mi piace rompere, per poi creare.

5. Dall’esperienza come apprendista ebanista, agli studi viennesi con Michelangelo Pistoletto (scultura), Matteo Thun, Ron Arad e Enzo Mari (design). Come associa questi due mondi?
In tutta la mia vita il legno è stato una costante. Ero un bambino e d’estate andavo in montagna e la c’era tanto legno; e con esso potevo giocare, creare e inventare. Mi piace l’idea che gli alberi siano tutti diversi, e che da quegli alberi si possano creare degli oggetti. Ancora oggi ho questo pensiero ricorrente: continuo a guardare gli alberi e a pensare a cosa potrei creare. Tornando al passato, quando finii l’apprendistato a 19 anni, capii che non avrei voluto fare il falegname “tanto per farlo”: sentivo che per me quello non sarebbe stato solo un mestiere. Ho iniziato a viaggiare per il mondo, dove ho conosciuto gente molto diversa dall’io falegname, sia dal punto di vista artistico sia di stile di vita, e questo mi ha ispirato. Ciò che capii era che avrei voluto usare le mie capacità manuali per creare qualcosa di più artistico, scultoreo. Ci sono voluti tre o quattro anni di “disintossicazione” dall’arredamento per tornare a fare mobili, ma a quel punto dando forma alle mie idee, non più a quelle degli altri.



6. Si definisce una persona metodica?
Mi ritengo abbastanza metodico, anche se amo mettere in discussione ciò che faccio. Il metodo non è immutabile, anzi, credo che serva per originare un metodo nuovo che permetta di connettere cose che prima non erano mai state assieme. Amo capovolgere la metodologia, la struttura, la tecnica. La definirei una “metodologia artistica”, che mi permette di affrontare la razionalità del design con maggior interesse. Basti pensare che non sono mai riuscito a disegnare un tavolo rettangolare… devo sempre tagliarne via un pezzo!

7. Come avviene il suo processo creativo? Che peso e collocazione ha la parte concettuale?
Lo definirei un processo graduale, mano-a-mano. Sono solito scrivere moltissimo in un mio diario, che contiene quasi più testi che disegni: inizialmente sono solo parole buttate su un foglio, poi ci gioco e le ripercorro avanti e indietro, fino a diventare un framework concettuale. È così che nascono i titoli delle opere, che sono per me una parte essenziale. Titoli come “Design as a state of mind” o “100 Chairs in 100 Days and its 100 Ways” sono parte integrante dell’opera e contribuiscono a darle senso e forza.

8. Pensando al Martino Gamper che esplora il mondo, se le commissionassero la curatela di una mostra nata per raccontare il design contemporaneo, che macro-tendenze esplorerebbe tramite il design?
Più che pensare alle tendenze, io mi soffermo sul metodo di analisi. I miei progetti vengono delineati ragionando su 4 pilastri: spaces (gli spazi geografici e culturali, e le rispettive interconnessioni), places (la location alla quale è destinata la creazione), people (per chi progetti e quali sono le funzioni di questi oggetti all’interno della società) e behaviour (l’atteggiamento, il funzionamento, ciò che queste creazioni inducono).



9. La sua casa londinese è stata progettata in ogni minimo dettaglio. Quando pensa a quello spazio, qual è l’oggetto, o la creazione, che crede descriva meglio la sua personalità?
Oltre al design e all’arte mi interessa molto la musica, ed essa trova spazio nella mia casa. Proprio come l’artigianato, la musica è un connettore: se sei un musicista ti trovi a metà strada tra suoni e parole, sei un artigiano del suono. E proprio come un artigiano che compone oggetti, un musicista si trova a mettere assieme suoni che prima nessuno aveva connesso.



10. Qual è un oggetto della sua casa al quale non rinuncerebbe mai? Qual è il ricordo legato ad esso? Ci manda una foto scattata da lei?
Un tavolo bianco e verde smeraldo che ho realizzato con delle ante disegnate da Gio Ponti. È un bel riassunto del mio essere, che mi dà una bella energia.
